Alle mie " Preziose cicatrici".
Quando due anni fa mi è stato diagnosticato il tumore al seno la prima reazione è stata di pianto e negazione. Mi dicevo che non fosse possibile che stesse accadendo a me, proprio a me! Era già un periodo tumultuoso perché ancora non avevo superato il dolore della separazione dal mio compagno che mi aveva lasciata e quindi non poteva essere che la vita si accanisse così! Quindi ho voluto pensare alla mia condizione come ad un'influenza che sarebbe passata dopo avere estratto il tutto ed io sarei tornata alla normalità , alla mia solita vita, che anche se non soddisfacente, era sicura perché conosciuta.
Era febbraio 2020 e l'operazione doveva essere a marzo, proprio quando iniziò la pandemia.
Ero sola, nella mia casa a Milano, con un tumore, con mia madre e suo marito che vivevano nel cuore della pandemia a Bergamo, mio padre vicino Milano e non potevo vedere nessuno per evitare il contagio. Sul mio posto di lavoro si era aperta improvvisamente la possibilità di essere lasciata a casa e la mia operazione era saltata perché non c'erano respiratori negli ospedali saturi di malati di Covid. Il mondo conosciuto si era sgretolato pezzettino per pezzettino, non c'era più nessun punto di riferimento fermo e mi trovavo a dover fronteggiare da sola questa esperienza che non volevo.
Ricordo che provai una grandissima paura all'idea che dovessi andare da sola ad operarmi, senza la vicinanza di nessuno. Mi afferrò il panico e solo grazie al supporto di un counselor, mio vecchio insegnante del corso, riuscì a trovare l'equilibrio per sostenermi. Fu un aiuto importante anche se sporadico e a distanza. Iniziai a respirare, a meditare tutti i giorni, mi avvicinai al buddismo che non conoscevo per imparare a meditare, a centrarmi nella respirazione. Era come essere su una barca da sola nel mezzo di una terribile tempesta e respirare è stato come il salvagente che mi ha tenuta a galla per tutto il periodo che ho dovuto attendere l'operazione. Nella sfortuna la fortuna volle che grazie al mio contratto di lavoro avessi la possibilità di farmi operare in una struttura privata, così da potermi operare prima, perché altrimenti avrei dovuto aspettare chissà quanto a causa dell'emergenza sanitaria (alcune persone non ce l'hanno fatta e si sono aggravate fino alla morte).
Passai i giorni che mi separavano dall'operazione a fare pace con questa "cosa" nel mio seno. Sentivo la necessità di calmare la rabbia e il dolore che mi aveva procurato . Mi sentivo vittima di un'ingiustizia da parte della vita. Avevo bisogno di fare pace con la vita e quindi anche con il tumore. Respiravo, mi accarezzavo, parlavo con quel tumore. Non era estraneo alla mia vita poiché nella mia famiglia aveva colpito la mia nonna materna, che ne era morta e la mia zia materna, che aveva fatto la mastectomia. La mia mamma era rimasta orfana a 10 anni a causa del tumore al seno della sua mamma, quindi la narrazione famigliare di questa malattia era mostruosa, qualcosa di terribile che causava dolore, distruzione della felicità e morte. Iniziò ad incuriosirmi il fatto che io, mia zia e mia nonna avessimo avuto il tumore tutte alla stessa età , quasi fosse una maledizione famigliare.
In realtà spesso se il tumore è genetico accade proprio questo, si presenta alla stessa età nelle generazioni successive, anche se non è una certezza. Inoltre c'è anche l'eredità psicologica, la psicogenealogia può spiegare in parte tale fenomeno. Come se un irrisolto famigliare continuasse a ripetersi nelle generazioni successive cercando la sua risoluzione ogni volta. Iniziai a leggere la "Sindrome degli antenati", la "Metagenealogia" e a parlare con le mie antenate, in modo immaginale ovviamente. No, non stavo impazzendo, stavo anzi pian piano trovando la via per accettare la malattia, comprenderla ed accogliere l'imprevidibilità della vita. Cercavo di fare pace con me stessa e per farlo sono andata anche a ricostruire le vite della mia nonna e di mia zia per comprendere cosa portavo di loro in me.
Infine arrivò il giorno dell'operazione. Finì in un ospedale in cui credo non andrò mai più nella vita, era come un albergo a 4 stelle, una stanza di lusso ed ero praticamente sola nell'ospedale se non per un'altra donna che si operava come me.
Prima di chiudere gli occhi l'anestesista mi disse di pensare ad una cosa bella che mi faceva stare bene, ed io subito pensai al mare della mia amata Sicilia, pochi secondi e mi addormentai. Feci il sonno più riposante della mia vita. Mi svegliai di sera, sentì tutti i miei parenti ed amici, ero felice, leggera sotto gli oppiacei. Non c'erano metastasi, il quadrante viene immediatamente ricostruito così che non si vede nulla a parte la cicatrice. Pensai a mia nonna e mia zia che avevano dovuto subire interventi molto più invasivi perché allora non esisteva ancora la quadrantectomia, alla mia nonna negli anni '50 le venne tolto tutto creando grossi problemi alla muscolatura della spalla, del braccio, della schiena, del torace per sempre.
Oggi è diverso, la qualità della vita dopo è migliore di allora, ma comunque tutto cambia inevitabilmente. Il braccio non è più lo stesso e necessita di cura e fisioterapia. Per ogni donna è differente, si avrà più o meno fastidio, i nostri corpi sono diversi. Inoltre la terapia soppressiva ormonale, che ci fa entrare in menopausa farmacologica modifica definitivamente la nostra fisiologia, la nostra pelle, le nostre articolazioni, il nostro umore. E il nostro ritmo di vita è definitivamente legato a controlli medici costanti, esami, ecografie, che sono serrati nei primi cinque anni e poi si vedrà cosa accadrà .
Tutto è cambiato definitivamente, non è come un' influenza che passa come credevo e desideravo all'inizio.
La psiche è unita indissolubilmente al corpo e si ritrova a fare i conti con la fine. E' finito definitivamente un periodo della vita e nemmeno si è potuta avere la gradualità per pian piano rendersene conto perché il cambiamento è avvenuto repentinamente, ma in realtà non è sempre così? Tutto è cambiato nel giro di pochi mesi. Un grande salto nel vuoto, nell'ignoto.
Un giorno mentre me ne stavo nel letto con dolori articolari fortissimi, a causa di una reazione allergica al primo farmaco utilizzato nella terapia ormonale che non mi consentiva nemmeno di alzare la coperta a causa di dolori fortissimi alle articolazioni dei polsi, in preda alla disperazione perché ero sola e non sapevo nemmeno come cucinarmi, cercavo in ogni modo di fare passare i dolori. Respiravo, meditavo, facevo micro movimenti dello yoga, ma niente non c'era verso, i dolori anziché diminuire aumentavano. Erano lì e non volevano andarsene. E allora mi arresi.
Nel momento in cui mi arresi accadde qualcosa, fu come un atto d' amore.
Invece di cercare a tutti i costi di eliminare i dolori, di farli passare velocemente, li accolsi. Mi lasciai affondare nel letto e dissi dentro di me: "Va bene, va bene così, siete qui dolori e vi sento". Fu come un abbraccio a tutto il corpo e alla mia psiche, alla mia anima. Restai lì con tenerezza. I dolori non passarono, ma tutto divenne più morbido, il corpo e la mente. Mi preparai da mangiare con lentezza, mi nutrì con attenzione e riposai per molto tempo.
Il mio corpo mi diede quel giorno una grande lezione di vita, che cerco sempre di ricordare in ogni momento in cui tutto cambia e che ogni speranza è disattesa:
vivere è un atto d'amore, in ogni momento accogliere quello che arriva e che c'è, è un atto d'amore in cui con tenerezza si abbraccia ogni parte di sé fisica e psichica, ogni accadimento fuori e dentro di noi.
Le cose non smetteranno di cambiare, non andranno come desidero, la sofferenza continuerà a presentarsi. Solo fermandomi, come quel giorno in quel letto, potrò abbracciare tutto quello che c'è e sentirne allora la gioia che deriva dall'atto d'amore verso di sé, l'altro da sé, verso la sofferenza, la fine e l'ignoto.
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